Non più, o non solo, polenta e salmì, formaggi e salumi. Fra le vette e le valli alpine soffia un vento di novità che, soprattutto nella bella stagione, porta con sé erbe spontanee e officinali, corolle fiorite, funghi selvatici, ortaggi dimenticati, bacche e frutti del bosco. È la nuova cucina di montagna che sa essere fresca, colorata, leggera. Aggettivi che, fino a qualche anno fa, a queste altezze non sarebbero stati usati. Perché in quota, si sa (si sapeva?), i piatti sono robusti, gli intingoli ricchi, le pietanze corroboranti. Ma anche no.
Un nuovo corso
L’inversione di rotta si deve, sicuramente, a Norbert Niederkofler. Chef tristellato del St. Hubertus, ristorante dell’hotel Rosa Alpina di San Cassiano in Badia (Bolzano), è il padre putativo di un new deal che, come scrive sul suo sito, “è nato quando ho iniziato a chiedermi come la cucina di montagna potesse contribuire alla crescita sostenibile del pianeta e promuovere la tutela del territorio”. Queste premesse hanno investito di un nuovo significato concetti come biodiversità, km 0, stagionalità, recupero della tradizione. Termini di cui in molti riempiono discorsi e menu senza, tuttavia, far seguire alle parole i fatti. Ma il vento, per fortuna, sta cambiando. Almeno ad alta quota.
La scienza recuperata
Quando si pensa alla montagna, si parla sempre della cucina cosiddetta povera e dei suoi cibi semplici: la già citata polenta, l’orzo, le patate, il pane. Dimenticando la più antica delle consuetudini: la raccolta. “Il termine giusto è fitoalimurgia”, specifica Alessandro Gilmozzi, una stella al ristorante El Molin di Cavalese (Trento). “È la scienza della botanica che accomuna le valli alpine, dalla Val d’Aosta all’ultimo sito delle Dolomiti. Quello che oggi si chiama foraging. È conservare la memoria di un popolo di raccoglitori. Mia nonna raccoglieva, e come lei mio nonno e mio zio. Me lo hanno insegnato loro. Oggi, io aggiungo la tecnologia, per dare struttura a questa tradizione antichissima”.
Sposare l’innovazione
La cucina di Gilmozzi diventa, così, un laboratorio a metà fra botanico, fisico e alchemico. La materia prima si trasforma con ultrasuoni, distillatori, futuristiche pentole a pressione, macchinari a vapore. Tecniche innovative che non compromettono ma, anzi, esaltano gli ingredienti naturali. “Oggi ho fatto un nuovo dessert con muschio e bieta colorata candita. E mi sono commosso”, racconta lo chef.
I doni della natura
El Molin può contare su appezzamenti fino a 2.000 metri di altezza, un orto che cresce a quota 1.300, contadini a filiera corta e cooperative agricole locali che riforniscono le cucine di erbe officinali, zucche, barbabietole, carote, insalate trentine. “In montagna, raccogliamo ogni due giorni circa 70 tipi di botaniche diverse. Dal fiore del cirmolo e del larice alle gemme di abete e pino mugo, dall’asparago selvatico all’acetosella. Occorre avere una speciale concessione (una sorta di patentino, ndr) e agire con occhio molto attento alla sostenibilità, nel rispetto del territorio e salvaguardando la crescita spontanea”.
La pigna dalle sette vite
Sostenibilità vuol dire anche ridurre gli scarti. “Non buttare nulla” è un mantra. L’esempio perfetto è l’utilizzo della pigna del cirmolo che Gilmozzi utilizza ben 7 volte: “Raccolta a fine giugno, se ne ricavano i pinoli, poi uno sciroppo, la resina e un fermentato che utilizziamo per i cocktail. Quindi, si fa essiccare, si scava, si tosta e si frulla per ottenere una polvere che completa il nostro riso alla parmigiana. Una parte si distilla e il distillato serve per macerare altri ingredienti. Quel che rimane si getta infine nel braciere, per sfruttarne il profumo”.
Una gita in quota
Il magico mondo della montagna può apparire chiuso come le vette che lo circondano e il tradizionale riserbo delle genti che lo abitano. Ma sa aprirsi e accogliere anche il turista che, sempre più spesso, può essere coinvolto in attività di foraging ed esperienze in cucina. Gilmozzi organizza i “giovedì sensoriali” in cui gli ospiti, in piccoli gruppi, sono accompagnati nei boschi dallo chef e da un naturalista che racconta la biodiversità del territorio e le proprietà anche curative delle erbe. Poi, tutti in baita a cucinare, degustare il raccolto del giorno e brindare con un calice di Trentodoc, le eccellenti bollicine locali, circondati dai profumi resinosi di pini, cimbri e larici.
Giovani chef in vetta
Qualcosa di simile viene organizzato anche dal Grand Hotel Royal & Golf di Courmayeur (Aosta) il cui ristorante, Petit Royal, ha sposato la nuova cucina di montagna grazie alla curiosità e all’entusiasmo del giovane chef Paolo Griffa. Originario di Alba, in Val d’Aosta dalla fine del 2017 e una stella già appuntata sulla casacca, ha scoperto i prodotti locali collaborando con due realtà molto importanti: Sistema Ollignan Onlus, fondazione che lavora con ragazzi diversamente abili alla gestione di un centro agricolo, e l’Institute Agricole Régional, la facoltà di agraria valdostana nei cui terreni maturano ortaggi, pascolano mucche, crescono erbe rigogliose: un paniere di prodotti unici che colora la bella stagione di sapori e profumi, spesso dimenticati.
Rispetto, prima di tutto
Andare per erbe non è facile come dirlo. Griffa ha dovuto imparare cosa raccogliere, che non tutto può essere raccolto tutto l’anno e qualcosa non si può toccare mai: “Tutte le erbe che non sono mai state raccolte (il cui utilizzo non ha, perciò, una tradizione riconosciuta, ndr), sono protette”. Occorre, naturalmente, saper distinguere quelle commestibili dalle velenose: varietà molto utilizzate come la genziana e l’aglio orsino si possono confondere con piante simili, ma tossiche. Fondamentale conoscere i cicli vitali: “Sei tu al servizio delle piante, non il contrario. Cogliere un’erba nel momento sbagliato può uccidere l’intera pianta”.
Non solo vegetali
La cucina di montagna continua a vivere anche dei tanti prodotti dell’allevamento, della caccia e della pesca. Latte, formaggi, carni, salumi, selvaggina, trote, tinche, salmerini non sono affatto banditi. Piuttosto, esaltati dal recupero dei sentori balsamici, delle note tanniche, degli aromi dimenticati e intensi che la montagna regala. Griffa li sperimenta in piatti come la faraona al fieno e fiori di calendula, nelle variazioni di cervo o di coniglio di Carmagnola, che ha portato dal suo Piemonte.
L’evoluzione della tradizione
“Da una tradizione poverissima di recupero, siamo arrivati a una cucina non più di sostentamento, ma di pregio”. sottolinea Griffa. Le tecniche sono quelle di sempre: essiccazione, fermentazione, infusione, carbonazione, che sembra chissà cosa e invece è il metodo per aggiungere effervescenza naturale alle bevande fermentate. L’approccio è moderno grazie all’impiego di strumenti d’avanguardia. Come l’Ocoo, macchinario di produzione coreana per cuocere, estrarre i nutrienti, persino invecchiare i cibi cui Griffa dedica un capitolo nel libro dedicato alla cucina del Petit Royal (Tipografia Valdostana, 288 pp., 95 euro). Senza dimenticare la tecnologia spicciola, come lo smartphone: “Quando vado per prati e ho difficoltà a riconoscere un’erba, per togliermi ogni dubbio... faccio una videochiamata a Gilmozzi!”. A testimonianza del filo diretto che di bosco in bosco, e di vetta in vetta, unisce la Val d’Aosta alle Dolomiti.
La foto di apertura è di Stefania Giorgi, scattata presso El Brite de Larieto, agriturismo di charme a Cortina d’Ampezzo guidato dallo chef Riccardo Gaspari, che dispone di una cucina mobile per cucinare e mangiare immersi nella natura
Francesca Romana Mezzadri
Giugno 2021
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