Siamo nella seconda metà del VII secolo a.C.: nei suoi versi, il poeta greco spartano Alcmane si racconta in una giornata d’inverno quando, sulla brace accesa del suo tripode, cuoce la etneos, una sorta di polenta di farina macinata grossa e mescolata con farina di ceci, fave e altre verdure e legumi, condita con abbondante olio, di cui il poeta recita le lodi. Possiamo considerarla l’antenata della farinata. Al tempo, in una cucina popolare familiare diffusa, questa semplice polentina di ceci – sebbene in diverse forme e ricette – era conosciuta in tutto il Mediterraneo, dalla Grecia alla Turchia, dalla Siria all'Egitto, fino alle Colonne d'Ercole. Considerata un piatto unico, faceva parte dell’alimentazione quotidiana, visto che i ceci nutrivano con le loro economiche proteine chi non poteva permettersi di mangiare carne.
Più recente l'origine dell’attuale farinata: la storia racconta che nel circa 1300, dopo aver vinto la battaglia della Meloria contro i Pisani, le navi genovesi che tornavano a casa si ritrovassero in una forte tempesta, che fece rovesciare nelle stive barili di farina di ceci e olio, bagnando l’impasto risultante con la salata acqua di mare. Una volta asciugato al sole, il risultato di questo mix fu assaggiato e trovato molto gustoso. Quando tra il XVII e il XVIII secolo prenderà piede il “forno a volta” (che consentirà una cottura della farinata perfetta e raffinata, compresa la preziosa crosticina), la farinata assumerà la fisionomia di oggi e amplierà la sua popolarità.
Gli esperti dicono che per fare la farina di ceci perfetta (foto sopra), questi devono essere macinati d'annata, meglio se provenienti da terreni sabbiosi come quelli dell'area preappenninica. Importantissima è anche l'acqua, che non deve essere calcarea. Dopo aver mescolato farina e acqua, nella quale è stato sciolto del sale fino, evitando che si formino grumi, l’impasto per la farinata ha bisogno di un tempo di riposo di almeno tre ore. Al termine del riposo, si schiuma l’impasto in superficie con una spatola e si aggiunge olio extravergine d'oliva (facoltativo, alcuni ungono solo la teglia). Il composto verrà poi versato in una teglia circolare di rame o di ferro battuto che in Liguria prende il nome di tèsto, badando che lo spessore della farinata non superi il centimetro e che non vi siano nell’impasto granelli che si siano depositati sul fondo della pentola durante il riposo.
Il tèsto va inserito in un forno già caldo rigorosamente a legna dove dovrà restare a cuocere una decina di minuti (il tèsto viene girato spesso in forno per una cottura più omogenea, foto sopra) finché sulla superficie si sarà formata una deliziosa crosticina dorata. Si sforna, si taglia e si pone la farinata in piatti caldi con una macinata di pepe. Qui trovate la ricetta per farla a casa.
Oggi, oltre alla farinata o cecina tradizionale, si incontrano le varianti più golose: alcune semplici, come la farinata contadina, altre ricche come la farinata del bosco, altre ancora eleganti e raffinate, come la farinata con cipolle e acciughe
La diffusione del piatto è notevole lungo l'asse tirrenico settentrionale, dove la farinata è gradita dall'area nizzarda fino a Livorno, anche se ogni luogo ha voluto darle il proprio nomignolo: la farinata in tutta la Liguria – con Genova e Savona che ne rivendicano la paternità – è fainâ, fainâ de çeixi a Genova e, nel solo savonese, turtellassu; da scoprire, i ceci speciali della farinata novese. In Toscana è cecina, soprattutto a Pisa; a Massa e Carrara è nota come calda calda, a Livorno è torta di ceci o solo torta. Nel Basso Piemonte, specialmente nella zona di Alessandria – patria di Umberto Eco che ne era ghiottissimo – la troviamo come cade, nel Tortonese è invece bele o bela càuda perché tradizionalmente la farinata si mangia calda, appena sfornata (foto sopra). I marinai genovesi la portarono anche in Sardegna, nella zona di Sassari, dove si chiama fainè sassarese.
Francesca Tagliabue
febbraio 2024
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