Dal porpora al granata, dal rubino luminoso sino a calici impenetrabili come l’inchiostro, il vino rosso è senza riserve, e in tutte le sue sfumature, un prodotto che riscuote da tempo immemore grande successo di pubblico. Il suo simbolismo è profondo, si intreccia alla religione quanto alla guerra in un sillogismo che conferma nel colore rosso un’allegoria della forza. Gli egizi indossavano monili in oro e diaspro rosso in onore di Iside, il mantello (saguum) dei legionari romani era color porpora, così come l’abito cardinalizio ha toni scarlatti. Un colore che si ricavava in passato da pigmenti naturali, talora anche tossici come l’arsenico, e che, come dimostrano studi sulla psiche umana, attiva il Sistema Nervoso Centrale, accelerando il battito cardiaco e la frequenza respiratoria. Un rimando a sentimenti tanto positivi quanto negativi, dunque, ammiccando alla seduzione e alla lussuria, ma anche a culti e rituali in cui la potenza divina trova espressione attraverso il vino.
Un prodotto ricco di storia, simbolismo e, ad oggi, anche medaglie. Sono infatti i vini rossi, italiani e internazionali, a mantenere una presenza percentuale maggioritaria sul podio e nelle Top Ten dei concorsi e delle pubblicazioni, nazionali e internazionali, dedicati al vino. Basti pensare all’annuale classifica stilata da Wine Spectator, rivista statunitense dedicata al settore wine&spirits tra le più autorevoli al mondo, in cui è ben evidente la prevalenza di vini rossi tra le prime dieci etichette premiate. Nel 2023 è stato un prestigioso rosso italiano, il Brunello di Montalcino 2018 di Argiano, ad aver conquistato il primo premio. È sempre tra i vini rossi, poi, che si segnalano le etichette più costose al mondo, come Pétrus, Romanée-Conti e Château Lafite-Rothschild, mentre, per il panorama nostrano, figurano nomi noti come il Barolo Monfortino di Conterno, l’Amarone di Quintarelli e il Masseto.
Lasciando da parte le referenze iconiche per osservare la spesa media al dettaglio per una bottiglia di vino, sono ancora i rossi a primeggiare, superando di alcuni punti il prezzo al litro per il vino bianco. Complice di ciò, in primis, il costo per ettaro dei vigneti: in cima alla classifica si trovano infatti alcune delle denominazioni più prestigiose per quanto concerne la produzione di vini rossi. Domina la lista il territorio di Barolo, con un valore per ettaro di 2 milioni di euro, seguito da Montalcino e Caldaro con quasi un milione, e Bolgheri a poca distanza, con 0.7 milioni (dati Crea 2022). Accanto a questi costi, che raggiungono cifre da capogiro quando si parla di cru e zone ad altissima vocazione, si aggiungono le rese basse imposte dai disciplinari in virtù di quella dicotomia tra qualità e quantità. Al fine, dunque, di garantire una materia prima eccellente, il quantitativo di uva prodotta per pianta deve necessariamente ridursi raggiungendo massimali per ettaro mediamente più bassi rispetto alle quote previste per i bianchi. Tendenzialmente, peraltro, i grandi vini rossi d’Italia richiedono l’utilizzo di vasi vinari in legno per l’affinamento, con costi che incidono inevitabilmente sulle spese di produzione. Inoltre, sono spesso necessarie lunghe attese prima di poter procedere all’imbottigliamento e all’immissione sul mercato: cinque anni per il Brunello di Montalcino, tre anni circa per Barolo, Taurasi e Sagrantino di Montefalco, due anni per l’Amarone della Valpolicella (archi temporali che aumentano ulteriormente per la menzione Riserva). Un capitale immobilizzato dunque, che accresce il proprio valore durante questa sosta.
Partendo dalla zona al vertice dei costi per ettaro sopra citati, tra i fascinosi paesaggi delle Langhe, è il Nebbiolo il vitigno principe dei vini rossi di Barolo e Barbaresco. Un colore rubino scarico che vira facilmente verso il granata, profumi floreali, frutti rossi e sensazioni balsamiche sono i caratteri distintivi di un calice di Nebbiolo, che varia notevolmente anche in virtù dell’areale in cui è coltivato. Anche i suoi nomi cambiano, ma che sia Chiavennasca, Spanna o Prünent, regalerà sempre un assaggio di buona tensione e dal tannino vigoroso, ottimo per accompagnare i tanti piatti a base di carne della cucina regionale.
Accanto al Nebbiolo, non si può non citare il Sangiovese, che resta in cima alle classifiche nazionali come varietà più coltivata con oltre 65mila ettari vitati. Due sono i cloni principali di quest’uva, il Sangiovese piccolo e il Grosso, e tanti sono invece i suoi sinonimi: Morellino, Brunello, Prugnolo Gentile, per citarne alcuni. Anche in questo caso, la cucina locale ben si presta per accompagnare un bicchiere di Sangiovese, che si tratti di un Nobile di Montepulciano, un Chianti Classico o un Brunello di Montalcino.
Scendendo, infine, verso il Tacco d’Italia, tra Gioia del Colle e Manduria, è il Primitivo a farsi alfiere dei rossi di questo angolo di Puglia. Sebbene lo stile differisca tra i due territori, con espressioni più fresche e balsamiche a Gioia del Colle, più dense, alcoliche e zuccherine a Manduria, il corredo genetico del vitigno è il medesimo, e lo è altrettanto quando si parla del Californiano Zinfandel tanto quanto dello Crljenak Kastelanski croato. Il merito di questa scoperta è di Carole Meredith, dell’Università di Davis, che, dopo lunghi e attenti studi, è riuscita a ricostruire i legami genetici tra le varietà. Vitigno precoce, soprannominato anche “primaticcio”, come annotava intorno alla metà del Settecento don Francesco Filippo Indellicati, il primo ad annotare come, tra tanti vitigni che si usava coltivare nelle sue vigne, ce ne fosse uno che giungeva a maturazione prima degli altri e dava un'uva particolarmente nera, dolce e gustosa che si poteva vendemmiare ad agosto – tanto precoce da permettere, in alcune annate particolarmente favorevoli, di avere due raccolti.
Potremmo poi proseguire citando l’Aglianico del Vulture e di Taurasi, il Sagrantino di Montefalco, il Nero d’Avola, o gli areali più circoscritti di Lacrima di Morro o Tintilia del Molise, in un affascinante giro tra i rossi d’Italia, di tradizione e modernità.
Letizia Porcini,
settembre 2024
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