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News ed EventiPiaceriLa flemma sontuosa del ragù alla napoletana

La flemma sontuosa del ragù alla napoletana

La storia e il matrimonio con la pasta di questo canone inderogabile della cucina partenopea, quella di tradizione - povera, essenziale e saporita, che richiede una pazienza che diviene filosofia di vita, come insegna il grande Eduardo De Filippo (con ricetta originale)

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A differenza del suo omologo bolognese, il ragù alla napoletana prevede che soltanto il sugo ricavato dalla cottura della carne nel pomodoro venga aggiunto alla pasta: grandi pezzi di carne (manzo e maiale) devono cuocere, interi, con cipolla, vino rosso e pomodoro concentrato, lentamente – in dialetto devono “pippiare”, cioè sobbollire piano – per lungo tempo, perché solo così raggiunge quella consistenza e quel gusto che lo hanno reso leggendario. Per questi motivi, in passato, si cominciava  a cucinarlo il sabato sera, per poi averlo pronto per il grande pranzo della domenica. Una volta terminata la cottura, si toglierà la carne per servirla a parte e con il suo sugo scuro e lucido si condirà la pasta, generalmente ziti – rigorosamente spezzati a mano – o candele, paccheri, rigatoni, ma anche sartù, gnocchi, perfino la polenta.

ZITI AL RAGU_NAPOLETANO

Quel ragoût così francese
Il ragù ha origine Oltralpe, come ragoût, da ragouter (rinforzare il gusto). La sua prima funzione – per un paio di secoli – è stata di insaporire altri piatti di carne e di pesce, dando gusto e vivacità a vivande percepite come un po’… piatte. Si chiamava così una marea di condimenti e intingoli, diversi tra loro, che accompagnavano arrosti e lessi dando loro un gusto nuovo, al punto di venire serviti – nella Francia dei primi del Seicento – insieme ai piatti stessi, come portata unica.
L’idea piacque e si diffuse in tutte le cucine europee. Nel XVII secolo i ragù divennero di gran moda: ogni raccolta di ricette degna di questo nome ne includeva almeno una variante, anche se al tempo più che di definite ricette si parlava di metodo di cottura, con vivande che venivano «cotte in ragoût».
Uno dei primi a dissertare in modo esaustivo sul ragù fu il cuoco francese François Massialot nel suo volume Le cuisinier royal et bourgeois del 1691. Massialot, chef di Filippo d’Orléans, fratello del re Sole, Luigi XIV, era un’autorità della cucina francese, al suo apice in quel periodo. François Massialot disseminerà il suo manuale di ricette di ragoût in accompagnamento di altrettanti piatti, ma ne descrive la preparazione abbastanza fedelmente.

Il ragù in Italia
Nello stesso periodo, nel resto d’Europa, si diffonde la mania del ragoût, francesismo che entra nelle cucine e che comparirà (spesso storpiato) in alcune pubblicazioni, come il dizionario inglese che nel 1677 ne riporterà la definizione come «ragoo: piatto di carne condito con una salsa singolare, curiosa».
La cucina francese cominciava già a permeare quella italiana, ancora adagiata sui fasti del Rinascimento, e l’avrebbe ‘contagiata’ per un lungo periodo.
Dobbiamo a L’arte di ben cucinare (1662) del cuoco bolognese Bartolomeo Stefani il primo accenno italiano a un ragù, ma dovremo aspettare un altro secolo prima di arrivare al Cuoco galante (1773) di Vincenzo Corrado, per avere indicazioni – vere e proprie ricette – sulla preparazione del ragù, che viene servito in timballi e che continua a essere simile al ragoût francese.

PACCHERI AL RAGU NAPOLETANO

Pasta: un matrimonio d’amore
Nel 1807 Francesco Leonardi dà alle stampe L’Apicio moderno dove compaiono per la prima volta i Maccaroni alla Napolitana, dove la pasta non è più un timballo ma, una volta condita, viene solo passata in forno per favorire l’assorbimento del sugo. Curiosamente, nella ricetta di Leonardi, il ragù viene aggiunto sempre dopo il formaggio grattugiato, e non viceversa, come si fa oggi.
Ai primi dell’Ottocento, per la prima volta comparirà la parola ragù in associazione alla pasta in un ricettario napoletano anonimo, La cucina casareccia, dedicato alla classe borghese: qui i Maccheroni alla Napoletana sono un piatto molto più vicino alla cucina di famiglia, quella quotidiana, il cui condimento è simile all’attuale ragù alla napoletana: un grosso taglio di carne viene steccato con prosciutto e chiodi di garofano; compare il pomodoro, aggiunto fresco o sotto forma di conserva, e la carne viene stufata. Come da tradizione, per condire la pasta si utilizzerà di questa preparazione soltanto il sugo, mentre la carne cotta verrà consumata a parte.

CARNE PER RAGU NAPOLETANO

Nel 1837, sarà uno dei più rinomati e diffusi ricettari napoletani, la Cucina teorico–pratica di Ippolito Cavalcanti, scritto per metà in dialetto, che celebrerà ufficialmente il successo dei maccarune, arrivando a indicare con precisione i possibili tagli di bovino da utilizzare nel ragù – che però qui non vengono steccati – e suggerendo di usare per il sugo acqua invece di brodo.
Cavalcanti, inoltre, affermerà e divulgherà la regola che la pasta doveva essere al dente, secondo la consuetudine del popolo napoletano.

In questo periodo la maggioranza dei manuali di ricette e libri di cucina* riporta solo l’antica versione con il sugo di carne senza pomodoro, ma nel 1871 Pellegrino Artusi, ne La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, le citerà entrambe. Agli inizi del ventesimo secolo, a causa del costo della carne come ingrediente e dei lunghi tempi che occorrevano per stufarla, il pomodoro prenderà sempre più spazio a scapito della prima. I maccheroni al ragù rimarranno il piatto della domenica e della festa, mentre il semplice sugo di pomodoro, orfano della carne, diventerà il condimento di tutti i giorni.

FARE IL RAGU NAPOLETANO

O’ rraù di Eduardo De Filippo
Tanti gli autori che hanno immortalato il ragù napoletano, tra cui Giuseppe Marotta, che dedicò al piatto una novella, inserendola poi nella raccolta di racconti “L’oro di Napoli” (1947), da cui Vittorio De Sica nel 1954 trasse  l’omonimo film di successo. Nella novella, si parla del sugo con poesia ma se ne indica anche la precisa preparazione «…perché il ragù non si cuoce, ma si consegue, non è una salsa, ma la storia e il romanzo e il poema di una salsa…».

SiCucineCummeVoglii GUIDO TOMMASI EDITORE

Eduardo De Filippo, attore e drammaturgo napoletano, ha fatto del ragù alla napoletana, «o’ rraù», il leit motiv di una commedia teatraleSabato, domenica e lunedì – nella quale De Filippo fa ruotare le vicende di un’intera famiglia intorno a questo piatto, aprendo con la protagonista Rosa che lo sta cucinando, e filosofeggiando sul ragù e sulla vita, ne dà praticamente la ricetta.

Estratto del testo della commedia e ricetta originale tratti dal volume  SI CUCINE CUMME VOGLI’T… 
La cucina povera di Eduardo De Filippo raccontata dalla moglie Isabella Quarantotti De Filippo
Guido Tommasi Editore

ROSA: Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti, di cipolla, più aromatico e sostanzioso viene il gusto. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione…La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l’uccidevano. Lei usava o il tiano di terracotta o la casseruola di rame. L’alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di annecchia e lo metteva in una sperlunga come si mette un neonato nella connola, poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore.

Eduardo_De_Filippo_1959

IL RAGÙ DI EDUARDO: LA RICETTA
«1 chilo e 1/2 di lacerto (pezzo di carne tra il girello e il sottocoscia)
1 chilo di spuntature di maiale
400 grammi di concentrato di pomodoro
200 grammi di olio
200 grammi di cipolla tritata
più l’interno (il bianco) di una costola di sedano
300 grammi di vino bianco secco
200 grammi di parmigiano grattugiato
2 litri circa di passata di pomodoro
molto basilico, una carota

Per gli ziti, vi regolerete secondo il numero dei commensali,
calcolando 150 grammi a testa, più 200 grammi abbondanti
che si spera avanzeranno perché, ripassati in padella e ben rosolati, sono ottimi.

Mettete la carne – legata non troppo stretta – e le spuntature in una casseruola ovale insieme all’olio e alla cipolla e al sedano tritati, coprite e fate rosolare a fuoco molto basso. Ogni tanto scoprite e girate le carni da tutti i lati. Dopo circa un’ora togliete il coperchio, alzate la fiamma; girando la carne la farete rosolare, aggiungendo il vino a piccole dosi e lasciandolo via via evaporare. Versate allora in tegame qualche cucchiaio di concentrato (che avrete diluito con un po’ d’acqua) e continuate a girare carne e sugo. Assorbite le prime cucchiaiate, versatene altre e andate avanti così fino all’ultima goccia di concentrato. Rassegnatevi a girare, perché questa operazione durerà circa un’ora. A questo punto potrete versare, in due o tre volte, la passata di pomodoro, una grossa carota a pezzi (servirà a togliere acidità al pomodoro) e un pugno di basilico. Portate a bollore e subito abbassate il fuoco al minimo. Sistemate un cucchiaio di legno sull’orlo della casseruola e appoggiatevi il coperchio in modo che il vapore possa uscire invece d’andare ad aumentare il livello del liquido. Qui inizia il periodo di “peppiamento” e cioè della sobollitura lentissima, per evitare che il ragù si attacchi al fondo: sarebbe un guaio perché il sugo prenderebbe un sapore sgradevole. Quindi, ogni tanto, dateci un’occhiata. È una seccatura ma bisogna farlo. Dopo un’ora potrete togliere le spuntature e poggiarle su un vassoio, e dopo un’altra oretta farete lo stesso con la carne, liberandola dallo spago. Togliete anche la carota che ormai non serve più. Coprite il tegame come prima, aspettate ancora un’ora, un’ora e mezza, poi spegnete la fiamma e andatevene a dormire. Già, perché è meglio cucinare il ragù il giorno prima, altrimenti dovreste svegliarvi all’alba e arrivereste a tavola sfiniti e rancorosi. Vi ho dato quelle che considero le dosi minime, ma consiglio di aumentarle, visto che cucinare il ragù è una vera faticata e visto anche che esso si conserva a lungo ed esistono tanti modi saporiti per usare quello avanzato.

Siamo arrivati al giorno del ragù, possibilmente a ora di pranzo. Dopo aver rimesso le carni nel sugo, riscaldatele a fuoco basso, o addirittura a bagnomaria. Cuocete gli ziti tenendoli al dente, scolateli, versateli nel recipiente da portata e iniziate a condirli mestolo per mestolo (o coppino per coppino, come si dice a Napoli), mescolando accuratamente insieme a qualche foglia di basilico. Quando la pasta avrà assorbito sugo sufficiente e sarà di un bel color mattone, pareggiate la superficie, aggiungete un paio di mestoli di sugo, cospargeteteli di parmigiano, decorate col basilico rimasto. Lasciate riposare qualche minuto e servite in tavola dove avrete disposto i piatti fondi riscaldati.

E la carne? Tagliatela a fette, disponetela in un vassoio largo, circondata dalle spuntature, con qualche scarsa cucchiaiata di salsa qua e là».

Vi sfido a resistere...

Francesca Tagliabue
settembre 2022

Si ringrazia Guido Tommasi Editore

* Testi come Cucina borghese semplice ed economica, 1854; Il cuciniere moderno, 1871; Il cuoco sapiente, 1871; Il re dei cuochi, 1874)

 

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