La ricotta non è un formaggio: questo forse lo sapete già! Infatti, è noto che si ricavi non direttamente dal latte ma dal siero, che è lo scarto delle lavorazioni casearie. Recuperato e riscaldato (ri-cotto, appunto), il siero coagula in soffici fiocchi che vengono raccolti in apposite forme, come le classiche fuscelle. Dopo un breve riposo, durante il quale l’acqua in eccesso cola via, si ottiene una pasta candida, leggermente granulosa, priva di crosta e dal sapore delicato. Merceologicamente la ricotta si definisce “latticino” ed è un prodotto tipico italiano, che nessuno prepara al di fuori dello Stivale. In compenso, da nord a sud si declina in mille modi differenti. Scopriamoli insieme.
Le ricotte fresche
Per “fresca” si intende la ricotta messa in vendita a poche ore dalla lavorazione cui abbiamo appena accennato. Si tratta, insomma, del “modello base”. Le due famiglie più numerose sono quelle delle ricotte vaccine e ovine, ma esistono anche prodotti ottenuti da latte di capra o di bufala. Altre variazioni sul tema sono la presenza o meno di sale, che migliora la conservazione e intensifica il sapore, e l’aggiunta di panna o latte intero, che rendono il latticino corposo e morbido. In linea di massima, sono fatte così tutte le ricotte, comprese quelle industriali che troviamo confezionate al banco frigo: queste ultime sono caratterizzate da lunga durata (circa tre settimane di shelf life), al contrario delle produzioni tradizionali, spesso artigianali, che danno il meglio di sé nei primi 2,3 giorni dalla produzione.
La ricotta romana. Si fregia della Dop ed è prodotta in Lazio dal latte di pecore di razze storicamente allevate in quei territori (come la Sarda e la Comisana), alimentate per la maggior parte con i foraggi dei pascoli della regione. Prevede una piccola aggiunta di latte intero e conserva la naturale sapidità, il fondo dolciastro e la gradevole acidità tipici del latte ovino. Ha una consistenza grumosa e una pasta abbastanza asciutta che la rende ideale per i ripieni. La forma è la più tradizionale, a tronco di cono, percorsa dalla trama dei cestelli, un tempo in vimini, oggi in plastica.
La ricotta di bufala campana. Altra Dop, è tipica delle zone di lavorazione della mozzarella di bufala: Benevento, Caserta, Napoli, Salerno, Frosinone, Latina, Roma, Foggia e Isernia. È fatta colare in fuscelle o tele (un tempo era chiamata “ricotta in salvietta”). Ha una conservabilità limitata: non più di 7 giorni, ma ne esiste anche una versione sottoposta a trattamento termico e omogeneizzazione che le permette di mantenersi fresca fino a 21 giorni (in tal caso, in etichetta è indicata come “omogeneizzata”). Ha una consistenza abbastanza setosa e un gusto dolce e rotondo che la rende ingrediente prediletto in pasticceria, in particolare nella preparazione della pastiera.
Il seirass piemontese. È un Pat (Prodotto agroalimentare tradizionale) e ne esistono due tipologie. Il seirass (che significa, appunto, “ricotta”) propriamente detto è tipicamente di pecora, fatto sgrondare in larghe tele assumendo una forma a pagnotta. Il cosiddetto “seirass di latte” ha una lavorazione ibrida che parte da latte vaccino fresco (invece che da siero) e caglio, portato fino a 80°, quando sulla superficie affiorano i fiocchi di ricotta. Una volta raccolti e messi a scolare, sono confezionati in tradizionali sacchetti a forma di cono, in lino o in materiale sintetico a trama fine.
Le ricotte stagionate e affumicate
Nel nostro paese si producono ricotte sin dal tempo degli antichi Romani. Ed è da allora che i casari hanno messo a punto sistemi per allungare la vita di questi delicati latticini. Il più semplice è la salatura che si abbina a una stagionatura più o meno prolungata. Il secondo metodo è la cottura in forno e/o l’affumicatura: in entrambi i casi, si disperde l’umidità, la parte esterna assume un colore più o meno brunito, il gusto diventa più o meno “smokey”.
La ricotta salata. Detta anche “secca” o “stagionata”, è salata appena fatta e poi altre 2-3 volte durante la maturazione, che avviene in genere in un periodo fra 10 e 30 giorni. Può avere forma rotonda, a tronco di cono o più allungata, e pasta candida o paglierina a secondo del tempo di maturazione. La consistenza è quella di un classico formaggio da grattugia e infatti l’utilizzo più tipico è sulla pasta alla Norma, ridotta a filetti o scaglie sottili. Prodotta in tutto il meridione, in Sicilia è solitamente di latte di pecora o misto ovino e vaccino, mentre in Sardegna si trova spesso di latte di capra, ottima anche da gustare al piatto, accompagnata da miele o verdure fresche.
Il seirass del fen. È la versione più peculiare del seirass piemontese. Il punto di partenza è una classica ricotta di alpeggio vaccina, ovina o caprina, arricchita da un’aggiunta di latte. Prima della commercializzazione, le forme tondeggianti sono fatte riposare sotto uno strato di fieno per un tempo che può andare da 10 a 25 giorni al massimo. Più lunga è questa stagionatura più il seirass del fen acquista particolarissimi sentori erbacei. Ancora più ricercato il seirass stagionato vero e proprio. Di vacca, pecora, capra o un mix dei tre latti, si presenta anch’esso “a pagnotta”. A volte viene pressato per far uscire il più possibile l’acqua. Infine, è avvolto in piante aromatiche di montagna, come alcune varietà di timo selvatico. La maturazione minima è di 50-60 giorni.
La ricotta salata della Valnerina. Specialità umbra presidio Slow Food, è una ricotta ovina che utilizza il latte di pecore che pascolano a 800-100 metri d’altezza. La lavorazione tradizionale, ancora oggi mantenuta a livello artigianale, prevede un riposo all’interno di sacchetti di canapa, strizzati e appesi per almeno due giorni a sgrondare, perché il latticino perda la parte liquida. Le ricotte, una volta rassodate, assumono una forma “a pera”. Tolte dai sacchetti, sono passate nel sale e messe a riposare sotto uno strato di crusca, che facilita l’asciugatura e la conservazione delle ricotte. Stagionate almeno 15 giorni, si gustano a fettine, con olio e pepe.
La ricotta forte o scanta. Pat salentina, si produce tra Lecce e Taranto, terra di allevamenti ovini. È la più “estrema” fra le ricotte, non propriamente stagionata ma lasciata fermentare. Dopo la produzione e la salatura riposa fino a 3-4 mesi, in recipienti di coccio o legno, nei quali viene rimescolata ogni 2-3 giorni. È in questo modo che resta cremosa, mentre il processo di “invecchiamento” fa assumere alla ricotta un colore avorio e un caratteristico gusto piccante e lievemente amarognolo. Adatta a “palati forti”, può rifinire paste rustiche, arricchire i ripieni dei panzerotti o essere gustata semplicemente sul pane, con un filo d’olio, pomodoro a rinfrescare o persino acciughe sotto sale, per chi non teme gli abbinamenti più sapidi.
La ricotta infornata. Pat siciliano, non è necessariamente affumicata. A circa una settimana dalla produzione, la ricotta è passata in forno a legna. Possono essere effettuate più cotture successive o un’unica infornata, ma più prolungata: in entrambi i casi, l’esterno diventerà man mano brunito e aromatico. La più tipica è quella messinese, delicatamente dorata dopo una cottura di 5-6 ore. Si impiega per la versione messinese della pasta con le melanzane ma è buona anche come formaggio da tavola, a fettine o cubotti.
La ricotta affumicata. Secondo la tradizione contadina si prepara in molte zone d’Italia come Lazio e Calabria, ma anche Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli, utilizzando brace di legni aromatici che conferiscono un aroma intenso alla parte esterna, mentre il cuore rimane più chiaro e delicato. A Sauris, nella regione della Carnia, dove esiste una lunga tradizione di affumicatura anche di salumi e insaccati, se ne produce una pregiata varietà di malga usata in piatti come gnocchi, polenta e cjarsons, i ravioli tipici locali.
Francesca Romana Mezzadri
aprile 2022
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