Less is more: è questo il motto dei nuovi cocktail nudi, spogliati di guarnizioni elaborate. Niente più fronzoli, spesso inutili benché instagrammabili. Chi ama bere miscelato oggi predilige l’esperienza in purezza, per apprezzare ingredienti ed equilibri e sorseggiare l’aperitivo o l’after dinner senza trovarsi spiedini negli occhi e bacche tra i denti. Addio, dunque, ai drink sovraccarichi: dagli ombrellini stile tiki bar (per quanto emblema di una trend comunque divertente) ai riccioli di bucce di agrumi, dai rami di rosmarino ai grani galleggianti di ginepro o pepe, troppo spesso usati per ingannare l’olfatto e il palato e mascherare l’utilizzo di spirits e soft drink fin troppo “piatti”, poco profumati e aromatici.
Ne abbiamo parlato con Andrea Giraldo, head bartender dietro al bancone - insieme al bar manager Alberto Corvi - di Casa Tobago, a Milano. “Tutto può essere interpretato in chiave minimal”, afferma presentando tre signature (nella foto in alto): Uppercut con gin, Cynar e giusto una foglia di alloro bruciato, Disappear a base mezcal e Curry Me On con rum, Campari, ananas e note speziate. “Anche riscrivendo i cocktail classici”, ci spiega mettendosi all’opera per una variante di Martini con Altamura, vodka distillata da grano pugliese, Sherry Fino, Vermouth rosé e gocce di soluzione salina, anziché la salamoia dell’oliva. Ultimo tocco, una scorza fresca di limone solo spremuta sull’orlo del bicchiere, piccolo concentrato di olii aromatici che non “sporca” la presentazione.
“In questo senso, anche il glassware (la cristalleria, ndr) contribuisce alla piacevolezza della bevuta: un calice Kimura di cristallo finissimo e leggerissimo fa sicuramente la differenza”. Il bicchiere, dunque, diventa esso stesso essenziale, ben diverso dai pesanti tumbler usati in discoteca negli anni Ottanta e Novanta per Cuba Libre e Gin Fizz.
A completare il restyling contribuisce il ghiaccio: non più tritato, come nei vecchi drink frozen, né in cubetti scomposti, veloci a sciogliersi e ad annacquare il cocktail, oggi è in un unico blocco squadrato, che raffredda senza diluire. A Casa Tobago viene personalizzato con un timbro che riporta il logo del locale, impresso sulla superficie appena prima di inserire nel bicchiere, a seconda della forma, cubi e parallelepipedi.
I nuovi bartender lavorano come chef di cucina, si preparano “in casa” le basi, i bitter, gli estratti e gli sciroppi, dosano con precisione ogni elemento, finanche a gocce. A differenza dei piatti cucinati, dove gusti e consistenze possono alternarsi e concorrere a un effetto finale corale, le loro ricette devono risultare equilibrate e armoniose sin dal momento in cui bagnano le labbra. Anche per questo sembrano aver fatto propria la massima secondo cui nel piatto - in questo caso, nel bicchiere - non ci debba essere nulla da scartare. Questo significa che, in alcuni casi, può arrivare qualcosa ad accompagnare il drink, ma solo se funzionale alla ricetta. “Con il Whisky Sour, che ha note di burro e castagne, serviamo un honey comb, una cialda al miele a forma di favo posata sull’orlo del bicchiere”, conferma Giraldo. Che di recente ha ospitato Salomon Espino e Odett Cruz della crew dell’Handshake Speakeasy di Città del Messico, 3° classificato The World 50 Best Bars. I bartender messicani, per completare il loro Banana Split (Rum Añejo, blend di ciliegie ed estratto purissimo e trasparente del frutto esotico) hanno scelto di abbinare un “mattoncino” di cioccolato rosa al gusto, appunto, di banana: un sorso, un morso.
Sfrondare non significa, infatti, impoverire. Solo, levare l’inutile lasciando il necessario. Che può essere un boccone di accompagnamento o una garnish classica portata all’ennesima potenza, così da far diventare il drink un piccolo “mangia e bevi”. Mettono benissimo in pratica queste regole da Dirty, nuova apertura milanese dall’animo ribelle. Tra i cocktail di punta, il Superdirty (foto in basso) è un Martini secchissimo versato nella classica coppa traboccante di olive verdi, nere e farcite.
Allo stesso modo, il calice del Gibson è ricolmo di cipolline borettane agrodolci, e il gioco continua con il Big Mac, un Negroni con i cetriolini dentro, o il cocktail 4 (i signature drink si chiamano per numero, non per nome) con Aperitivo, chili e mango, guarnito da una croccante carotina novella, tutta da sgranocchiare.
Nelle intenzioni dei cinque soci Mario Farulla, Carola Abrate, Gianluca Tuzzi e Paolo Coppola, è la filosofia stessa del locale a essere ridotta all’osso. Si miscela a occhio, senza jigger (misurini), ma lasciando “sentire” la mano del bartender. Si apre solo la sera, le luci sono basse e rosse, l’atmosfera “da veri nottambuli”, musica pop e graffiti underground. Colpisce la bottiglieria no logo: dal gin a tutti i distillati e i liquori, gli spirits sono autoprodotti e conservati in anonime taniche da cui si rabboccano le bottiglie alle spalle del banco.
C’è ancora il cliente che chiede, e può ottenere, etichette note, ma dopo un assaggio della “produzione propria” difficilmente torna indietro. La miscelazione minimale è così: all’inizio, potrebbe sembrare che manchi qualcosa, ma all’assaggio arriva dritta al cuore.
Francesca Romana Mezzadri
Dicembre 2023
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