Silenzio. È la parola che accompagna la visita al monastero di Santa Caterina d’Alessandria, nel cuore di Palermo tra piazza
Bellini e piazza Pretoria, riaperto al pubblico nel 2017 dopo 700 anni. Silenzio mentre si passa per i corridoi, si entra nelle
celle delle suore di clausura, si osserva il giardino, la sala capitolare, la sala della priora e la ruota, unico punto di contatto
con il mondo esterno. Stupore è la parola di chi giunge sul tetto del convento e ammira dall’alto Palermo in tutta la sua
bellezza. Gola è quella che sorprende il visitatore al termine del percorso, nel parlatorio, dove si possono comprare e assaggiare i dolci conventuali siciliani, oggi opera di Peppe Giuffrè, chef siciliano, che li ha riportati alla luce con la collaborazione della cooperativa “Pulcherrima Res”; un lavoro basato sulla ricerca di Maria Oliveri raccolta nel libro “I segreti del chiostro, storia e ricette dei monasteri di Palermo” (Genio editore).
Sul finire del 1700, in ben 21 monasteri del capoluogo siciliano si realizzavano dolci legati al calendario liturgico: a Santa Chiara lasagneddi, alla Martorana fruttini di pasta di mandorle, a Valverde cassate, alla Pietà un pan di Spagna “dignu di papi, imperatore e re”, alla Badia Nuova biscotti e cannola, a Santa Caterina il panino, un morbido impasto di farina di mandorle ripieno di zuccata… Le suore non li facevano per fini commerciali, ma per ingraziarsi il confessore o un prelato, per omaggiare i benefattori e forse anche per un briciolo di libertà dalle rigide regole monacali.
Monache e monasteri non erano tutti uguali. C’erano istituti ricchi come quello di Santa Caterina d’Alessandria, le cui suore definite “superbacce” provenivano da famiglie d’alto rango, o quello di San Giuliano con religiose di ceto mercantile. Santa Maria del Monte e Croci ospitavano invece povere figliole. Ma la cucina era uguale per tutti, spartana e dotata di pochi strumenti: bilancia, mortaio, stampini in gesso per la frutta martorana, madie, forno a legna, ripiano in marmo. Di qui uscivano piccoli capolavori. Uno fra i tanti è il riso dolce del monastero del Santissimo Salvatore. Di questa bontà si diceva: “Cui nu’ ni mancia e si fa lu sdignusu certo che non ci trasi imparadisu”. Ossia, chi non ne mangia perché fa lo schifiltoso, di certo non andrà in Paradiso. Un’occasione troppo ghiotta per lasciarla scappare. In tutti i sensi.
Sul numero di settembre 2018 di Sale&Pepe trovi anche:
PESTO A COLORI menta, zucchine e pomodori secchi
L'ARTE DEL PANINO ricette e storia del più amato tra i cibi da strada
CIAMBELLE biscotti e altre piccoli dolci delizie dal mondo anglosassone