Prima del sapore mi è piaciuto il nome: crescionda, un termine che rimane impresso, roboante e sinuoso al tempo stesso, un po’ gioco del luna park, un po’ termine futurista, invece indica una torta tipica del Carnevale spoletino. Come mi sono imbattuta in questa ricetta non so, sicuramente durante qualche mia ricerca notturna, e l’incontro ha evocato un ricordo rimasto in un angolino nascosto della mia memoria. C’è stato un periodo in cui tutte le domeniche mio padre, che non cucinava neppure un uovo, si cimentava con le creme al burro e con queste farciva torte a due o tre strati, imbevuti con abbondante Alchermes. Le basi, alti e perfetti pan di Spagna, provenivano dall’Istituto alberghiero dove mio padre insegnava educazione fisica e dove la sua gola (di sicuro i due aspetti vi sembreranno in contraddizione) lo portava a stringere non solo rapporti di colleganza ma anche di amicizia con chi insegnava tecniche di cucina o pasticceria, tra cui un collega di origine umbre che un giorno arrivò dicendogli: “tieni Luciano ti ho fatto un dolce della mia terra”. E così la crescionda arrivò a casa, oggi ne sono certa, non avrei mai potuto dimenticare un nome così. E fuori dalle mie fantasie onomatopeiche il significato è quello di “crescia” cioè focaccia e “onta” perché nell’impasto si usava brodo di gallina vecchia, ma anche olio d’oliva o strutto e con questi grassi si intrideva il pane secco aggiungendo gli “schjianci”, melette semiselvatiche aspre, uova e formaggio di pecora e miele per dolcificare, perché lo zucchero costava troppo. In pratica, sino a tutto il Settecento era una sorta di pizza agrodolce, cotta sulla brace del camino se non si possedeva il forno, fatta a occhio, in due versioni, entrambe in occasione del Carnevale: la “dorge” o dolce e la “poretta”, poveretta con solo farina di granturco, acqua, uova e mele. La crescionda moderna è figlia dell’Ottocento quando divenne comune l’uso di zucchero, cacao e il liquore Mistrà. A seconda di come si mescolano gli ingredienti la torta cambia colore e consistenza, tanto che possiamo definirla “magica”. Ma è solo questione di fisica e di chimica. Può risultare scura se si usa il cacao, bianca con latte e pane, gialla con farina di mais. Oppure può essere di due colori con gli amaretti e il latte, gli amaretti salgono in superficie e il latte rimane sotto o di tre colori: amaretti, latte e cioccolato. Cambia anche la consistenza, se la versione è quella che prevede di separare albumi e tuorli, di lavorare questi con lo zucchero e di montare i primi a neve. Una volta cotta sarà croccante in superficie e morbida sotto. Perché di questa specialità, che oggi è, ne esistono molte, anzi moltissime versioni tanto da alimentare il detto spoletino “casa che vai crescionda che trovi”. Ma quale sarà mai stata la mia? Questo proprio non lo ricordo.
di Laura Maragliano, ritratto di Gian Marco Folcolini, foto del piatto di Francesca Moscheni, in cucina Claudia Compagni
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