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News ed EventiNewsQuando il pomodoro si fa a cubi

Quando il pomodoro si fa a cubi

Un'insolita conserva ci rammenta come si usasse -e si usi- trasformare i frutti polposi in scorte per i mesi a venire

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Ve lo ricordate l’acido salicilico? Mia madre mi mandava in farmacia a prenderlo, segno che era arrivato il momento della passata di pomodoro: un rito di fine agosto che vedeva mia nonna e le sue due figlie marciare compatte in direzione dell’allora mercato all’ingrosso di corso Sardegna (a Genova), visionare forma, colore e maturazione dei pomodori e cercare il miglior rapporto qualità prezzo. Alla fine uscivano trionfanti con le cassette di perini trasportate da un omino. Fuori ad aspettarle mio nonno che, con la scusa del “non c’è parcheggio”, rimaneva in attesa del rosso bottino. D’altra parte era un attore secondario, una comparsa, l’autista di tre signore che anche quell’anno avevano sventato fregature, fruttivendoli disonesti, comprando naturalmente i pomodori migliori.


187751Un'antica tradizione italiana
Era la metà degli anni ’60 e da allora di tempo ne è passato ma la conserva di pomodoro resta sempre una tradizione tutta italiana che, nell’immaginario, parla di Sud come tutto il mondo pomodoro. Al contrario, esiste un’altra storia che vede Parma e dintorni come una vera enclave dell’ortaggio: dalla coltivazione alla conservazione e alla sua industrializzazione con marchi che ancora oggi troviamo al supermercato. Arrivato in Italia dalla Spagna, dopo aver attecchito in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, il “pomo d’oro” dalla Sardegna (allora dominio spagnolo) arrivò in Liguria e da qui valicando l’Appennino trovò terreno fertile a Parma e Piacenza. Filippo Re, botanico e agronomo di Reggio Emilia, scrive nei primi anni dell’800 che dal frutto,”spremuto e spogliato dei semi, facendolo ispessire al fuoco” si ottiene ”una conserva che si riduce a consistenza solida e viene adoperata moltissimo durante tutto il corso dell’anno”.


Invenzione contadina? Probabilmente il contrario, nobiliare. Non è un caso che nel 1832 il cuoco Vincenzo Agnoletti al servizio di Maria Luigia d’Austria, a Parma, pubblichi nel Manuale del cuoco e del pasticciere ben cinque ricette di conserva: di pomodoro al fresco, secca, liquida, in mattoncini e “pomidoro asciutti”. E dai registri dell’amministrazione della Duchessa si sa che nel 1844 vennero preparati 80 vasi di conserva per un totale di 309 chili. Dunque il pomodoro si conservava nelle ville come in campagna, ma sul finire dell’800 dalla cottura con l’esposizione al sole fatta nelle aie, il pomodoro passò a quella delle caldaie per la gente di città. Era l’inizio dell’industrializzazione, incentivata dall’agronomo parmigiano Carlo Rognoni che selezionò varietà adatte alla conserva, spingendo i contadini alla coltura in pieno campo e intuendo che per dare reddito alle campagne bisognava sostenere l’attività di trasformazione.
L'intuizione fu recepita, ma le conserve continuarono anche a essere prodotte in casa, compresa quella a mattoncini, meglio conosciuta come "nera", "dura" o "sestuplo" perché era più che un super triplo concentrato. Non so se qualche signora ancora si cimenta; io ve ne propongo una versione semplificata che stuzzica la mia curiosità, visto che mi sono fatta tentare da una cassetta (una sola, meglio che niente) di rossi e tondi pomodori della Val Nure. Sceglierò la tradizione parmense o la versione di mia madre? Mattoncini o passata? Chi lo sa.


Laura Maragliano
su Sale&Pepe di settembre 2021

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