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News ed EventiPiaceriRistoranti: i nomi più comuni e quelli nuovi

Ristoranti: i nomi più comuni e quelli nuovi

Ci sono sono nomi ricorrenti, originali, azzeccati, persino di potenzialmente respingenti. Importante sapere che, per un locale, ciò che è scritto sull’insegna è solo in apparenza un dettaglio

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Le parole sono importanti, come recitava in una celebre battuta l’attore e regista Nanni Moretti. Se parliamo di ristoranti, i nomi lo sono anche di più. Quelli che leggiamo sulle insegne di locali storici, osterie contemporanee, trattorie “sincere”, bistrot modaioli e compagnia sono spesso molto eloquenti. Così importanti per il successo di un’attività che, per le nuove aperture, spesso si ricorre a consulenti professionisti. Gli esperti, così come gli imprenditori più accorti, prima ancora di a mettere a punto la filosofia della cucina, o di studiare gli arredi, si occupano proprio del cosiddetto naming: l’arte di trovare il nome giusto per il posto giusto. Possibilmente, originale.

I nomi ricorrenti

Se inserite su un motore di ricerca “Pizzeria Bella Napoli”, ottenete in pochi secondi decine e decine di risultati. Solo tra Milano e le province circostanti, da Varese a Novara, da Bergamo a Pavia, se ne contano almeno una ventina. I nomi ricorrenti, come Miramonti per i locali alpini, Miramare per quelli “pieds dans l’eau” o, appunto, i richiami a Napoli per le pizzerie, identificano in genere attività di lungo corso. A volte, per distinguersi, qualcuno aggiunge un “dal” con l’anno di apertura: più indietro si va nel tempo, più il cliente riterrà la - ipotetica - lunga esperienza garanzia di qualità. Se esiste da tanto, sarò buono, no? Questo è ancora più vero nell’era digitale: un ristorante di vecchia data sarà sicuramente ben indicizzato, avrà un alto numero di recensioni (si spera positive!) e, quindi, sarà più facile da trovare per clienti in cerca, cellulare alla mano, di un posto carino per un pranzo o una cena. Ecco perché, a volte, anche nomi “datati” non vengono sostituiti, neppure se l’attività cambia titolare o addirittura location: “Se buttassimo un nome, perderemmo anni di reputazione digitale”, conferma Dario Laurenzi, fondatore di Laurenzi Consulting, agenzia specializzata nello studio e sviluppo di concept per la ristorazione e l’accoglienza.

Un nome proprio

Spesso i ristoranti si chiamano con il nome proprio del patron, proprietario e/o cuoco, decisamente efficaci se si tratta di personaggi cosciuti a livello nazionale, come i grandi chef, ma altrettanto se lo sono a livello locale. Laurenzi racconta l’esempio di una catena di hamburgerie Kosher fondata da due fratelli che volevano inizialmente aprire nel cuore del ghetto ebraico di Roma: “Il padre era da sempre conosciuto nel quartiere con il soprannome di Fonzie, perché da giovane indossava giubbetto di pelle e T-shirt. Quando mi hanno proposto di usarlo come nome, l’ho trovato azzeccatissimo”.

A cosa si ispirano i nomi?

L’ispirazione per dare un nome a un locale può arrivare da ogni dove: un ingrediente, una cucina tipica, la zona e i suoi dintorni (è il caso di tante trattorie “Alla stazione” o “Al porto”), il semplice indirizzo. Il luogo scelto può riservare piacevoli sorprese. Laurenzi racconta che, durante le ricerche per un ristorante all’interno di hotel capitolino, hanno scoperto che l’edificio era stato in passato un convento che ospitava, nel Quattrocento, l’ordine di San Pasquale Baylone, protettore dei cuochi e dei pasticceri, che una leggenda vuole anche inventore, o comunque grande estimatore, dello zabaione. “Si è deciso di chiamare il ristorante San Baylone, mettere la pasticceria a vista e inserire lo zabaione, dolce o salato, in diversi punti della carta: sul nome abbiamo costruito il locale”.

Il naming passo per passo

In tutti i casi, una volta ipotizzato un nome, occorre uno studio approfondito per stabilire che sia effettivamente adatto. “La prima ricerca da fare è che i domini web siano liberi”, spiega Laurenzi mettendo l’accento, ancora una volta, sull’importanza della rete. “Poi, occorre verificare che ci sia la possibilità di registrare il brand. Anche se ormai spesso si registra il solo logo grafico, non il nome vero e proprio”. Un escamotage che permettere di utilizzare nomi estremamente popolari caratterizzandoli grazie al marchio, al lettering, alla palette di colori. Magari, non proprio comuni come Miramonti o Miramare, ma Laurenzi racconta, per esempio, di un format chiamato “Pomodoro e mozzarella”, ideato per Chef Express: un nome evidentemente già gettonatissimo, per il quale si decise di registrare, nella specifica categoria merceologica, il simbolo grafico con tutte le sue specifiche.

Corto è meglio?

“Il nome è come un tatuaggio”, osserva Laurenzi. “Se si sbaglia il format con i piatti, si cambia menu. Se l’arredamento non è funzionale è un po’ più complicato, ma si può sempre ristrutturare. Invece il nome, giusto o sbagliato che sia, resta”. Secondo i grandi maestri del branding, prosegue, i nomi dovrebbero essere corti, quattro lettere, non di più: più sono brevi, concettuali, meglio è. Un bell’esempio è Roots, (significato letterale “radici”), ristorante sociale con un programma di formazione culinaria professionale a Modena. Il nome scelto racchiude il legame con la terra di origine delle giovani donne coinvolte nel progetto, ma anche il loro desiderio di mettere radici da noi e, infine, un ingrediente molto usato nelle cucine tradizionali di alcuni dei paesi da cui le ragazze provengono. La tendenza al nome breve e diretto è tipica di questi ultimi anni, anche influenzata dalla nuova scena nordica, decisamente “senza fronzoli”. In alcuni casi, però, potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. A questo proposito, un esempio emblematico è quello di Trippa, la trattoria contemporanea milanese che ha segnato una rivoluzione nella ristorazione italiana, portando la cucina “popolare” a livelli gastronomici inaspettati. Un nome che rimanda a qualcosa di sostanzioso, a una cucina concreta come è quella dello chef Diego Rossi. Eppure, come ha avuto modo lui stesso di dichiarare più volte, all’inizio la gente si domandava se ci sarebbero state da mangiare solo trippe e frattaglie.

Una comunicazione diretta

La tendenza per le nuove aperture sembra essere, comunque, quella a un’immediatezza sempre maggiore. Ben incarnata da quel che si vede succedere nei quartieri asiatici delle nostre città, dove locali e localini di cucina street food cinesi hanno iniziato a chiamarsi come l’unica specialità proposta. Così, nella Chinatown milanese abbiamo Ravioli, Pollo fritto, Baozi e il curioso (o inquietante, dipende dai gusti!) Collo d’anatra. Insegne che dichiarano all’istante cosa servono. Anche al ristorante, nomen omen!

Francesca Romana Mezzadri
Foto di apertura Freepik
Febbraio 2024

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