“Mamma li turchi!”. Quante volte avete sentito ripetere questa frase per comunicare, ironicamente o no, un’apprensione. L’espressione è anche diventata titolo di diversi libri, di un film, una boutade in molte commedie all’italiana e, in tempi recenti, persino il nome di una via per arrampicata in Val d’Adige. “Li turchi”, di cui un tempo si aveva comprensibilmente paura, erano i saraceni, nome genericamente usato per definire le popolazioni arabe provenienti dal Nord Africa che, tra VIII e XI secolo, seminarono terrore lungo tutte le coste italiane, isole comprese.
In Sicilia, in particolare, dalle incursioni si passò alla lunga dominazione islamica finché nel 1091 i Normanni, alla guida del Conte Ruggero d’Altavilla, conquistarono l’isola sconfiggendo i saraceni in contrada Mulici, frazione di Scicli (oggi “territorio” del Commissario Montalbano). Qui la storia si mischia alla leggenda, perché sciclitani e normanni, da buoni cristiani, chiesero l’aiuto della Madonna che apparve su un cavallo bianco in veste di guerriera e liberò l’isola dagli invasori. Da allora alla Madonna delle Milizie è dedicata una festa che dal 1736 cade nell’ultima domenica di maggio, con tanto di processione, rievocazione della battaglia e dolce devozionale: una testa di turco. La pasticceria siciliana vanta vari dolci con questo nome tutti diversi tra loro. A Scicli è un goloso bignè a forma di turbante ripieno di ricotta o crema pasticcera, con aggiunta di scaglie di cioccolato o granella di mandorle o pistacchi. Un tempo il formato era gigante, poteva raggiungere anche un chilo e si faceva solo per la festa. Oggi si gusta tutto l’anno e le sue dimensioni, pur generose, si sono ridotte a circa 8 cm di diametro. L’impasto è una sorta di pasta choux fatta con strutto (guai al burro), farina e uova da modellare in porzioni con la sac à poche. Poi ci sono le teste di turco che si mangiano a Carnevale: rettangoli di sfoglia incisi all’interno con 5 tagli paralleli che in frittura si accartocciano. Una vecchia consuetudine, oggi dimenticata, era quella di regalare ad amici e parenti un vassoio di pasta di cannolo modellato con pieghe a mo’ di turbante e contenente cannoli ripieni. A San Cataldo sono tipiche le sfoglie infornate ripiene di ricotta e salsiccia fresca che, dopo la cottura, si ricoprono con cioccolato amaro fuso a ricordare i “mori”. Ma bisogna arrivare a Castelbuono per gustare una testa di turco deliziosa e delicata. È un dolce al cucchiaio adatto alla domenica che una volta si preparava tra I’Immacolata e Carnevale. È composto da sfoglie di pasta fritta, le “scorce”, alternate a strati di crema al latte aromatizzata alla cannella e limone. Difficile trovarne l’origine esatta, nei vocabolari ottocenteschi siciliani la “testa di turcu” con cialde fritte intrise di crema di latte si ritrova in più province, ma è solo a Castelbuono (Palermo), che ha trovato terreno fertile come dolce sfottò nei confronti dei saraceni. Va servita nel classico piatto di terracotta, il “fanguotto”, decorata con cioccolato in scaglie, o cacao e cannella, mentre il tocco finale è dato dalla zucchina candita. Poi il cucchiaio può affondare nella crema e la vendetta consumarsi lentamente e con piacere, oppure in un solo boccone come a Scicli. Perché il tema ricorrente è mangiare il nemico, per distruggerlo o per esorcizzarne la paura. E farlo in maniera dolce e ironica, alla siciliana, è da secoli il modo migliore.
Laura Maragliano,
Settembre 2024
Direttore di Sale&Pepe dal 20o8 (dove lavora dal 2005, dopo aver seguito il tema food, anche come direttore, in diverse testate) è giornalista e grande appassionata di cibo. Poco la entusiasma quanto sperimentare una delle (rare) ricette che ancora non conosce, studiarne la storia e scoprire usi e costumi delle persone che la preparano (o preparavano). Ligure – o meglio genovese – di nascita e cultura, per lavoro e per diletto gravita da oltre da trent’anni su Milano, ma è Lodi (a una manciata di chilometri da dove ha messo le sue nuove radici) la cittadina lombarda che l’ha catturata.
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