I nostri piatti più famosi si arricchiscono all'estero di invenzioni folgoranti che intrecciano la memoria gastronomica degli emigrati con suggestioni, ingredienti e tecniche locali. Diventando monumenti nazionali di altri popoli
Quando si parla di cibo italiano all'estero, tendiamo o a riempirci d'orgoglio pensando al vero Made in Italy rispettoso e puro, oppure a inorridire di fronte alle bestemmie con prodotti contraffatti e ricette improbabili figlie dell'italian sounding. In realtà esiste una terza grande via che ci dimentichiamo spesso: la cucina italiana di seconda, terza o addirittura quarta generazione; quella che partendo dalle nostre radici mediterranee ha poi viaggiato per il mondo e, raccogliendo suggestioni del luogo in cui approdava di volta in volta, si è evoluta fino a diventare qualcosa di nuovo. Ci sono ricette che noi non riconosciamo come nostre mentre per altri popoli si tratta di monumenti nazionali, eppure magari discendono proprio dal nostro corredo gastronomico. Siamo sempre stati un crocevia per viaggiatori e mercanti, abbiamo accolto e integrato abitudini nelle epoche in cui eravamo forti così come quando venivamo conquistati, per poi prendere il mare e farci migranti nei momenti peggiori.
Lasciavamo l'Italia in cerca di fortuna perché avevamo fame e paradossalmente ci portavamo dietro proprio il cibo. Ma non sempre ricordi e nostalgia sono sufficienti a riprodurre con fedeltà i piatti della tradizione. Spesso mancano alcuni ingredienti chiave (oltre ai soldi), così si finisce per arrangiarsi adoperando surrogati locali a coprire le assenze. A volte, come gli emigrati del primo '900 sbarcano a Staten Island e poi si spargono per gli Stati Uniti cercando di raggrupparsi in comunità compatte (le varie Little Italy), i sapori nostrani si staccano dalle origini e tracciano una linea parallela indipendente, nella fattispecie quella che si può definire cucina italoamericana. Ci si trova qualche rivisitazione lieve dei nostri classici, come le lasagne con la ricotta invece della besciamella, ma in larga parte si tratta di piatti originali soggetti a variazioni significative, adottati poi come fenomeno di costume grazie all'intreccio con cinema e altri media.
Per esempio, gli spaghetti meatballs (foto sopra) resi leggendari da Lilli e il Vagabondo, lo strambo e ultra formaggioso chicken parmesan (foto sotto) messo in scena da Spike Lee in Fa' la Cosa Giusta, o i tanti riferimenti alle fettuccine Alfredo contenuti nelle canzoni hip hop di successo.
Scendendo in America Latina la situazione non cambia troppo e le tracce dei sapori italiani seguono l'intensità dei flussi migratori, portandoci quindi ad avere dei picchi nei Paesi che ci hanno accolti in numero maggiore, come Argentina e Brasile. Qui i puristi della cucina nostrana (chi per capirci, già si arrabbia se vede Cracco mettere l'aglio nell'amatriciana) sono a rischio infarto, perché la fantasia e la libertà nelle riletture tocca spesso i livelli massimi.
Un piatto immancabile nei menu di Buenos Aires è la authentic milanesa, che ha poco in comune con la cugina di Milano, ma può almeno rimandare in modo legittimo all'Italia. Si complica un po' la faccenda con la sua cugina milanesa a la napolitana, dove la cotoletta viene ricoperta di mozzarella, pomodoro, prosciutto, origano e uova diventando una sorta di torre di Babele ipercalorica. Girando il resto del Sudamerica, in nazioni come Cile, Uruguay o Perù, le tracce maggiori di cucina italiana si trovano in piatti di pasta molto lontani dalla nostra concezione, come i tallarines rojos tanto amati dai cittadini di Lima.
Spostandoci verso Oriente troviamo esecuzioni con un maggior grado di fedeltà, perché in mercati come Cina, Corea o Giappone la nostra cucina è rispettata e conosciuta, sia grazie al turismo sia al gran numero di cuochi che si sono formati in Europa prima di tornare a casa. Esistono, però, anche qui delle eccezioni legate all'utilizzo d'ingredienti locali con tecniche italiane.
Torte o tiramisù al tè matcha, gelato al sesamo nero, wafer ai fiori di ciliegio, sono spunti nostri per sapori loro, in uno scambio tra mondi lontani sulla carta ma vicini nel gusto. Alcuni di questi piatti potrebbero far storcere il naso, ma ricordiamoci sempre che le ricette oggi considerate tradizionali un tempo sono state rock e contro le regole. La cucina italiana di domani passa anche dal modo in cui gli altri ci osservano da fuori mentre noi guardiamo loro.
Pur senza essere davvero una ricetta della nostra tradizione, le fettuccine Alfredo sono considerate il piatto italiano per antonomasia in buona parte del mondo, specie negli Stati Uniti. La loro è una storia legata a un grande personaggio più che alla gastronomia, visto che sul piano di ingredienti e preparazione si tratta di una semplice fettuccina mantecata con badilate di burro e parmigiano fino a renderla cremosa e poi completata con un giro di pepe. Una generosa pasta in bianco e nulla più, ma a renderla leggendaria ci pensò il carismatico Alfredo Di Lelio, che all'inizio del secolo scorso era chef patron di un ristorante romano in via della Scrofa. Con grande teatralità e armato di posate d'oro, lui in persona mantecava le fettuccine per torme di turisti in estasi. Le sue performance divennero così famose tra gli attori di Hollywood da superare l'oceano e trovare gloria in America. le mitiche fettuccine si possono gustare ancor oggi nel ristorante Alfredo alla Scrofa, mantecate con sperimentato mestiere dal patron Mario Mozzetto.
Abbiamo incontrato il romano Marco Renzetti, chef stellato al ristorante Fame di San Paolo in Brasile.
Cosa significa fare cucina italiana all'estero?
Cucinare in Sud America e soprattutto a São Paulo, una delle metropoli al mondo con più influenze italiane, vuol dire fare i conti con decenni di informazioni ormai sedimentate nella società, ma frutto di un certo errore di traduzione che chiamo "cucina con l'accento".
Ovvero?
È uno slang straniero, estraneo, cui spesso sfugge la regola principale della cucina italiana: la semplicità. L'ho capito vent'anni fa, quando una cliente incredula, davanti a una classica cacio e pepe, mi chiese quale diavoleria fosse quella pasta nuda.
Come si reagisce in questi casi?
Io sono andato avanti per la mia strada con pazienza e mi piace pensare che forse il nostro messaggio spontaneo nel suo piccolo ha fatto breccia, al punto che oggi non è più un tabù a San Paolo mangiare una "semplice" cacio e pepe, una pasta fresca al dente callosa o uno spaghetto alle vongole senza burro.
Paolo Vizzari, docente, narratore e critico gastronomico
luglio 2025