Frutta e legumi a Expo: l’orto contemporaneo
Coltivazione di ortaggi orientali, importazione di prodotti esotici e recupero di varietà scomparse: ecco come impariamo a conoscere i freschi sapori di altri mondi
Il miglioramento dello stile di vita e le profonde modificazioni degli stili di consumo in Asia, specie in Cina e in India, hanno fatto sì che questi due colossi si siano trasformati da esportatori a importatori. Forse il business del futuro non sarà più l’estrazione del petrolio ma l’accaparramento delle terre per coltivare con tecniche intensive ortaggi, cereali e legumi per nutrire il pianeta.
In Africa una superficie pari a cinque volte la dimensione dell’Italia è diventata proprietà delle multinazionali del seme e di chi vede nel Continente Nero l’orto del futuro. E i nostri contadini si chiedono come potranno rimanere nei loro campi. I prezzi all’ingrosso di molte materie prime e ortaggi, oggi coltivati a livello globale sono crollati e con certi paesi non può esistere competizione. Molti Paesi del sud del mondo, come l’Africa, si stanno preparando per ospitare coltivazioni intensive di ortaggi per mercati occidentali, a discapito di colture tradizionali.
Se durante l’epoca coloniale, erano monocolture come le arachidi a interessare interi Paesi come il Senegal un domani toccherà a Benin, Gambia, Guinea, Guinea Equatoriale, Repubblica Democratica del Congo, Zambia (nazioni queste ultime ospiti del Cluster Frutta e Legumi) modificare l’assetto agricolo per rispondere alla richiesta crescente di frutta e verdura. Il fatto di puntare su una produzione specialistica, come è avvenuto ad esempio per la frutta secca in Kyrgyzstan e l’Uzbekistan o la frutta tropicale in Sri Lanka (anche questi Paesi a Expo2015 nello stesso Cluster) se da un lato può essere garanzia di acquisire nuove fette di mercato, dall’altro porta con sé il rischio di squilibri nello sviluppo di un’agricoltura armonica e bilanciata.
Expo 2015 tenterà di trovare nuove risposte al quesito apocalittico: ci sarà sufficiente cibo per tutti in futuro? E mentre grazie alle biotecnologie si teorizzano e sperimentano nuove strade, non prive di rischi, c’è chi con coraggio, spirito avventuriero e un pizzico di romanticismo coltiva il proprio orticello con un approccio diverso. Alcune aziende agricole nostrane hanno trovato una via di scampo alla concorrenza della globalizzazione, mettendosi a produrre vegetali che sul mercato non temono concorrenza. Da un lato troviamo chi sta recuperando antiche varietà di ortaggi: pomodori, insalate ma anche piante da frutto, legumi e cereali, perché nell’era moderna abbiamo assistito a una riduzione delle cultivar tradizionali, quelli che coltivavano i nostri nonni per intenderci. Dall’altro c’è chi sperimenta la coltivazione di specie tropicali molto richieste dalle comunità migranti e dall’alta ristorazione.
Sono vegetali usati da millenni in Asia o in sud America come i bacelli di okra, le radici di daikon, i tuberi di camote, i cavoli cinesi pak choi… in fondo perché stupirsi? Cinquecento anni fa avveniva lo stesso con l’arrivo del mais, delle patate, dei pomodori e dei fagioli, grazie a Cristoforo Colombo e alla scoperta dell’America! In quest’epoca di deindustrializzazione molti auspicano un ritorno alla terra.
L’orto del nuovo millennio, oltre a recuperare antiche varietà a rischio di estinzione e a sperimentare la coltivazione di piante esotiche, guarda ai fiori eduli. Ma c’è chi coltiva funghi orientali, hiratak, magari riciclando fondi di caffè. La speranza è in un futuro dove ci sarà cibo per tutti in quantità e qualità, magari usando tecniche capaci di ridurre o bandire l’uso di sostanze chimiche che rischiano di rovinare il pianeta.
Vittorio Castellani
marzo 2015