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Luoghi e PersonaggiPersonaggiLa cucina a scarto zero di Franco Aliberti

La cucina a scarto zero di Franco Aliberti

Intervista al giovane chef campano che, al grido di zero sprechi, ha fatto propria un’idea di cucina basata sul recupero di ciò che normalmente viene scartato. Dalle bucce delle patate ai gambi degli asparagi, nel suo ristorante a Riccione i cibi hanno una seconda vita

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Sprecare il meno possibile e utilizzare le materie prime nella propria interezza, trasformando anche le parti dei prodotti che normalmente vengono scartate. Questa è la filosofia di Franco Aliberti, promettente chef campano che, non a caso, abbiamo incontrato durante la serata di presentazione della linea di dissipatori per smaltire i rifiuti alimentari InSinkErator, nel Poggenpohl Centre di Milano.

Classe 1985, Aliberti vanta già un curriculum costellato da nomi celebri dell’alta cucina. Dopo la formazione a Salsomaggiore Terme sotto la guida di Massimo Spigaroli, si trasferisce a Parigi dove lavora nel ristorante di Alain Ducasse. Tornato in Italia collabora con Gualtiero Marchesi all’Alma, poi trascorre quattro anni a Le Calandre di Padova accanto a Massimiliano Alajmo, per poi approdare nel 2012 all’Osteria Francescana di Massimo Bottura. Nel 2013 realizza il sogno di un ristorante tutto suo e al grido di zero sprechi apre a Riccione "Èvviva dolci e cucina a scarto 0" (clicca qui).

Com’è nata la tua idea di una cucina zero sprechi?

Questo approccio fa parte da sempre di me, deriva dalla mia educazione. Sono nato a Scafati, un paesino vicino a Pompei, in Campania. In casa ho sempre visto mia madre buttare il meno possibile e nobilitare ogni parte di una materia prima. Una volta si faceva tutto in casa. Da piccolino uno dei miei passatempi preferiti era giocare con l’impasto della pizza, della pasta, delle conserve. Questi valori tipici della cultura contadina sono stati un po’ accantonati a favore di un consumismo sfrenato e in nome di tutto ciò si è iniziato a pensare che si poteva buttare la maggior parte delle cose da mangiare, soprattutto nei ristoranti di un certo livello.

Come metti in pratica questa filosofia?

Il mio motto è nasco pasticcere e morirò con il cuore dolce: ho iniziato con la pasticceria che è una scienza esatta. Sei costretto a conoscere la composizione chimica dei cibi, a studiarne le caratteristiche e questo approccio si è rivelato fondamentale nella mia lotta allo spreco. Se, per esempio vuoi riciclare i semi di un frutto, devi conoscerne a fondo la natura e poi sperimentare. Normalmente gli scarti vengono frullati, mischiati. La caratteristica della mia cucina è che il prodotto si vede, rimane quello che è.

Ci porti qualche esempio?

Le bucce delle patate possono essere fritte o riutilizzate per fare un brodo nel quale poi cuocere una pasta e patate. I semi dei kiwi li puoi tostare e utilizzare come un cuscus morbido o aggiungere a una crema dolce per dare una nota di acidità. I semi di mela sono perfetti per ricavare un ottimo sidro. Nella pappa al pomodoro puoi aggiungere un po’ di zucchero e riutilizzarla per un dolce. Con gli asparagi, di cui normalmente si scarta il 60%, puoi ottenere una salsa perfetta per aromatizzare la pasta. Fondamentale è imparare a guardare un prodotto da un altro punto di vista, non più solo per quello che siamo stati abituati a vederlo. L’apparenza a volte inganna.

Com’è nato il progetto di Èvviva Dolci e cucina a scarto 0?

È un progetto realizzato in collaborazione con Andrea Muccioli, conosciuto ai tempi della mia esperienza nel ristorante Vite della comunità di San Patrignano. Si tratta di quasi 300 metri quadrati recuperati nei locali della vecchia lavanderia del Grand Hotel di Riccione, e altrettanti negli spazi esterni. Non è solo un ristorante, è caffetteria, pasticceria, scuola di cucina e negozio, dove è possibile acquistare tutto ciò che è esposto. Ma soprattutto è un laboratorio di idee, che consente a me e alla mia squadra (un team di pasticceri, cuochi e sommelier che non arrivano alla trentina) di spaziare a 360° lungo l’arco di tutta la giornata. Questo mi permette di avere tante chance per giocarmi la seconda vita di un prodotto: se non trovo una collocazione in cucina vado in pasticceria o dal barman. Non sempre la vita di un pomodoro inizia e finisce dentro un piatto, magari lo ritrovi in un cocktail.

Che tipo di clientela frequenta il locale?

Il nostro pubblico è eterogeneo. Ciò che piace di più è il fatto di avere la cucina “aperta”: chiunque può sbirciare o semplicemente fare quattro chiacchere, tutto avviene alla luce del sole. In generale mi sembra che i miei clienti apprezzino la seconda vita che diamo agli alimenti. Un esempio è la pelle di pollo caramellata: fino a qualche anno fa sarebbe stata improponibile. La mettiamo nel forno schiacciata con un peso, in modo da farle perdere tutto il grasso. Poi la insaporiamo con un caramello speziato a base di vaniglia, chiodi di garofano e cannella, in modo da ottenere una cialda croccante che viene servita accanto a un dolce. Se non lo sai, non ti accorgi che è pollo. Quando, alla fine, rivelo cos’è veramente assisto alle reazioni più strane. È divertente.

Progetti futuri?

Vorrei portare il bambino Èvviva a camminare da solo e continuare a sviluppare la mia cucina a scarto zero, coinvolgendo sempre il pubblico nelle nostre iniziative. Di fronte al ristorante c’è un orto didattico di 62 mq, con 110 piante di pomodoro. Nel mese di agosto faremo le conserve in piazza e chiunque è benvenuto.

Silvia Tatozzi
4 giugno 2015

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